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stanza seconda
/di luce filtrata
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Orfeo fece conoscere /i cortei di fiaccole dei misteri indicibili. …
Euripide, Reso 943-4
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6. 1. Così, o santissimi imperatori, gli elementi sono stati fatti oggetto di culto da uomini perduti. Ma sopravvivono ancor oggi altre superstizioni di cui si devono far conoscere i segreti: cioè le superstizioni di Libero e Libera, cose tutte che devono essere in modo particolare rese note alla vostra sacra attenzione, perché sappiate che anche in questi misteri religiosi si è innalzata a culto sacro la morte di uomini. Dunque, Libero era figlio di Giove, cioè del re di Creta. Figlio di madre adultera, era allevato presso il padre con maggiore amore di quanto convenisse. La moglie di Giove, chiamata Giunone, sconvolta nel suo animo di matrigna, cercava di ordire insidie per uccidere ad ogni costo il bambino. 2. Il padre, sul punto di partire per un viaggio, conoscendo il celato risentimento della moglie, affidò il figlio alla tutela di uomini che gli sembravano idonei, affinché nulla fosse compiuto con inganno dalla moglie indignata. Giunone allora, attendendo con fiducia l’occasione favorevole alle insidie, maggiormente accesa d’indignazione perché il padre, alla sua partenza, aveva affidato al fanciullo il trono e lo scettro, tentò per prima cosa di corrompere con promesse e doni regali i custodi del bimbo; quindi appostò i suoi satelliti, detti Titani, nelle stanze più interne della reggia, e, con sonagli da trastullo e uno specchio fatto ad arte, allettò l’animo del fanciullo in modo che il bimbo, abbandonate le sale della reggia, si lasciò condurre dal desiderio del suo animo puerile verso il luogo del tranello. 3. In quel luogo venne sorpreso e trucidato e, affinché non si potesse scoprire alcuna traccia dell’uccisione, la schiera dei satelliti si divise pezzo per pezzo le sue membra lacerate. Quindi, temendo fortemente la crudeltà del re tiranno, per aggiungere al primo un altro misfatto, i satelliti consumarono le membra del fanciullo dopo averle cotte in vari modi, per cibarsi con un banchetto, fino a quel giorno inaudito, di carne umana. La sorella, di nome Minerva, riuscì a conservare per sé il cuore, che le era toccato in sorte, essendo stata anch’essa partecipe del delitto, sia perché esistesse una chiara prova di accusa, sia per avere la possibilità di mitigare il furore del padre. Al ritorno di Giove, la figlia gli espone per ordine il delitto. 4. Allora il padre, sconvolto dalla terribile disgrazia dell’uccisione e dall’atrocità del delitto crudele, uccide i Titani dopo averli torturati in vari modi, né tralasciò, per vendicare il figlio, alcun supplizio o pena, anzi, infuriando con ogni specie di castigo, vendicò l’uccisione di suo figlio senza tener conto della sua nascita, spinto certamente dall’amore paterno, ma con potere tirannico. Allora, poiché il padre non poteva sopportare più a lungo i dolori del suo animo pieno d’angoscia e poiché il dolore che gli veniva dalla privazione non poteva essere lenito da alcun conforto, fece fare con opera di scultura la sua immagine di gesso e lo scultore collocò il cuore, per mezzo del quale era stato scoperto il delitto per la delazione della sorella, in quella parte in cui erano state modellate le linee del petto. In seguito per tomba fece costruire un tempio e vi stabilì come sacerdote il pedagogo del fanciullo.
Giulio Firmico Materno, L’errore delle religioni profane, IV sec. d.C.
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Scese fino ai margini della città, imboccò il ponte e appoggiò le mani sulla fredda balaustra di ferro e guardò il fiume sottostante. Nelle acque vorticose e buie le luci del ponte tremavano come supplicanti incatenati e in fiamme, mentre lungo la sponda una nebbia grigia avanzava sui campi di carice color cenere rovistando tra le abitazioni. Incrociò le braccia sulla balaustra. Laggiù, su un tratto di terreno incolto, un disordine di baracche debolmente illuminate. Piccole case fatte di legna da ardere, giardini di ruta. Un mosaico di tetti inclinati sotto i coni di luce azzurrina dei lampioni dove le falene si alzano in vertiginose spire. Piccoli lotti coltivati a granturco, tratti irregolari di terra arata negli spazi morti, foggiati dalle restrizioni e dal bisogno come la vite dei coltivatori cupi ed esasperati cui va questo magro raccolto in cambio della vastità di terra lavorata. Goccioline di pioggia erano iniziate a cadere, fredde sul suo braccio. A valle, onda dopo onda, le correnti contrarie lungo la riva cesellavano frastagli di luce come miceli d’argento. Precipitare nel buio verso le tenebre. Dibattersi in quelle profondità opache e fecali senza più sapere da che parte è la superficie. Fino a che i polmoni aspirano liquami brunastri e strane luci si insinuano negli ultimi corridoi della mente, piccole sentinelle che vegliano affinché tutto sia calmo per l’avvento della notte eterna. L’orologio del tribunale batté le due. Suttree alzò lo sguardo. Là è possibile scorgere il quadrante luminoso sospeso sopra la città senza la benché minima ombra a segnalare la torre. Un orologio del Cheshire sospeso nel vuoto come uno strano geroglifico di luna. Suttree si asciugò l’acqua dal viso. La luce gialla e fumosa che illuminava la finestra di Abednego Jones si spense. Più giù riusciva a distinguere la sagoma di casa sua, dov’era diretto. In alto, sopra il territorio più a valle, il fulmine vibrò senza un suono e si estinse. Il contorno illuminato di nuvole lontane. Una luce sulfurea. Ci sono dei draghi tra le quinte del mondo? La pioggia adesso cadeva più fitta, gli scorreva addosso e proseguiva verso il fiume. Una forte pioggia obliqua nella luce del lampione, che tagliava il quadrante dell’orologio. Tempaccio, dice il vecchio. E così sia. Che gli elementi della terra mi avvolgano, sarò sempre più granitico. La mia faccia dirotterà la pioggia come le pietre.
Cormac McCarthy, Suttree, 1979.
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Quelli che a noi appaiono giocattoli erano all’inizio oggetti tanto seri da dover essere deposti nella tomba per accompagnare il defunto nel suo soggiorno oltremondano. E la maggiore antichità delle tombe che contengono oggetti in miniatura rispetto a quelle che contengono oggetti reali, mostra che la presenza dei primi non è affatto conseguenza di una sostituzione per motivi «economici». Se questo è vero, il tesoro che è custodito nella stanza di Mme Panckoucke fa segno verso uno statuto più originale della cosa, sul quale i morti, i bambini e altri feticisti possono darci informazioni preziose. Le ricerche di Winnicott sui primi rapporti fra i bambini e il mondo esterno hanno così portato all’identificazione di un genere di oggetti, da lui definiti «oggetti transizionali», che sono le prime cose (pezzo di lenzuolo, di stoffa o simili) che il bambino isola nella realtà esterna e di sui si appropria, e il cui luogo è «nella zona di esperienza che sta tra il pollice e l’orso di peluche, fra l’erotismo orale e la relazione oggettuale vera». Essi non appartengono perciò propriamente né alla sfera soggettiva interna, né a quella oggettiva esterna, ma a qualcosa che Winnicott definisce «area dell’illusione», nel cui «spazio potenziale» potranno in seguito situarsi tanto il gioco che l’esperienza culturale. La localizzazione della cultura e del gioco non è quindi né nell’uomo, né fuori di lui, ma in una «terza area», distinta tanto «dalla realtà psichica interiore che dal mondo effettivo in cui vive l’individuo». La topologia che qui si esprime a tastoni nel linguaggio della psicologia, feticisti e bambini, «selvaggi» e poeti la conoscono da sempre; ed è in questa terza area che dovrebbe situare la sua ricerca una scienza dell’uomo che si fosse veramente affrancata da ogni pregiudizio ottocentesco. Le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza di essere-al-mondo. La domanda dov’è la cosa? è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi x in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa.
Giorgio Agamben, Stanze, 1977.
[02 giugno – 21 luglio 2024]